Il giapponese e l’incubo degli omofoni

Era una notte buia e tempestosa… e mentre fuori impazzava il delirio da dolcetto o scherzetto, dentro casa una povera anima si strappava i capelli, metaforicamente ma non troppo, ascoltando l’ennesimo podcast di cui aveva capito ben poco, per l’ennesima volta.

Per festeggiare Halloween da vera nerd, oggi ho per voi una storia dell’orrore, un incubo che perseguita tanti poveri nipponisti sventurati.

Come ho anticipato brevemente nel post precedente, il mio metodo di studio preferito negli ultimi tempi è l’ascolto del giornale radio in giapponese. È un ottimo metodo per ampliare il proprio lessico e creare glossari, affinare la capacità di ascolto esponendosi a un registro di linguaggio medio-alto e tenersi aggiornati su ciò che succede nella terra del Sol Levante (e di questi tempi tra elezioni, tifoni e Corea del Nord, le notizie non mancano).

Come lavoro: aree tematiche

Ogni trasmissione ha la durata di circa 15-20 minuti ed è suddivisa in temi: politica interna, politica estera, cronaca, sport, ecc. con tanto di jingle tra una sezione e l’altra. Pur ascoltando tutta la trasmissione per esercitare l’ascolto, ho deciso di lavorare su un’area tematica alla volta, per farmi entrare in testa i vocaboli nuovi. Ho iniziato, ad esempio, con la questione dei missili coreani. Il procedimento è abbastanza semplice:

  1. Ascolto il servizio due volte prendendo appunti su quello che ho capito.
    [Spoiler alert: quando inizio con un argomento nuovo, di solito non capisco nulla e mi dispero, grido al fallimento, mi nascondo in un angolino a riflettere sulle scelte sbagliate che ho fatto nella mia vita]
  2. Passata la crisi di panico, trascrivo tutto il servizio a matita sul mio quaderno, fermando la registrazione miliardi di volte, scrivendo quello che sento anche se non capisco. La maggior parte di questa trascrizione avviene in hiragana, l’alfabeto sillabico.
  3. Armata di penna e dizionario, procedo alla stesura definitiva in kanji. Non sempre quello che ho trascritto è corretto, quindi ogni tanto bisogna procedere a tentativi e presto vi spiegherò perché.
  4. Rileggo il tutto, scrivo la lettura dei kanji nuovi in rosso sopra la parola, creo un mini-glossario alla fine con tutte le parole nuove e relativo significato.
  5. Rileggo traducendo a vista in italiano o in inglese, a seconda di come mi gira.
  6. [Facoltativo] Riascolto la notizia facendo shadowing (di solito durante i miei spostamenti a piedi, quando vado a fare la spesa o a camminare nella foresta).
20170926_172056
Le calorie del muffin aiutano il cervello
Dov’è l’incubo, vi starete chiedendo?

Il giapponese è una lingua esageratamente omofonica. E quando dico esageratamente, non esagero. Ecco un assaggio:

器官 kikan = organo, apparato (del corpo) es. apparato digerente

期間 kikan = periodo, intervallo di tempo

機関 kikan = macchinario, motore O organizzazione, organo (legislativo, ecc), istituto O mezzo (di trasporto, d’informazione)

帰還 kikan = rimpatrio

季刊 kikan = trimestrale (rivista, pubblicazione, ecc)

気管 kikan = trachea

基幹 kikan = nucleo, di base, chiave

既刊 kikan = già pubblicato

旗艦 kikan = nave ammiraglia

軌間 kikan = scartamento ferroviario

汽缶 kikan = caldaia

飢寒 kikan = fame e freddo

e almeno altri cinque kikan di uso meno comune/arcaico. Morale della favola, è chiaro che quando hanno distribuito la creatività fonetica, il Giappone era impegnato a sbevazzare tè verde a un retreat di monaci zen vegani.

In realtà, come potete notare dall’esempio, nel caso di un testo scritto la situazione non è così drammatica, visto che i kanji sono diversi per ciascuna parola. Sento già l’obiezione: “ma tanto si capisce dal contesto di quale dei 15 significati si tratta”. Vero, fortunatamente c’è abbastanza differenza tra una trachea, una nave ammiraglia e una caldaia per scongiurare la possibilità di fraintendimenti.

Eppure, vi assicuro che non sempre la differenza è così netta o, se lo è, esistono comunque casi in cui due significati potrebbero essere plausibili.
Ecco qualche esempio tratto dalle mie disperazioni quotidiane:

  • 隔壁 kakuheki = muro, barriera (in espressioni come un mondo senza barriere, barriere d’odio, ecc.)
  • 核兵器 kakuheiki – pronuncia: kakuheeki* = arma nucleare
    [*la i è usata come segno grafico che indica l’allungamento della vocale precedente, ma non si pronuncia]

Capirete bene che in un servizio su Trump, Corea del Nord e Giappone, entrambi i termini sono assai plausibili.

  • 後任 kounin – pronuncia: koonin = successore
  • 公認 kounin – pronuncia: koonin = ufficiale, autorizzato (aggettivo)

Nel caso delle elezioni, 後任 può essere il successore alla guida di un partito, mentre 公認 viene utilizzato come aggettivo di koho per indicare un candidato ufficiale durante le elezioni e, per non farci mancare nulla, un bel kounin al quadrato 公認後任, che può essere il successore ufficiale/riconosciuto.

Ma il premio astio delle ultime settimane va al seguente omofono e omografo:

小選挙区 shousenkyoku, che indica sia un distretto elettorale geograficamente piccolo, sia il sistema a collegio uninominale (come se la politica non fosse già abbastanza difficile di suo).

Mi fermo qui per non annoiarvi a morte, ma potrei andare avanti almeno per un’altra mezz’ora.

Come risolvere il problema e assicurarsi di aver scelto il significato giusto? Se proprio la sfiga ci perseguita e non riusciamo a venire a capo del problema, il buon Google ci viene in aiuto: spesso infatti è disponibile una trascrizione online delle notizie del giorno, che possiamo usare per confrontare la nostra versione con quella ufficiale.

Ascoltare le notizie in questo modo richiede un sacco di tempo e di energie, il progresso è molto lento e i momenti di frustrazione sono tanti: un incubo insomma. Il segreto però è persistere, perché poi quando ti rendi conto di aver capito un servizio intero sulla politica giapponese, la vittoria è dolce come un secchio pieno di caramelle di Halloween.

Qual è il tuo incubo linguistico? Condividilo nei commenti! 🙂

20171027_151145

Risorse per gli interessati:

Sulle orme di… Ann-Marie MacDonald

Mentre davanti ai miei occhi sfilano – in quest’ordine e a distanza di poche ore – le praterie canadesi e l’Ontario, tra foreste, laghi, baie soleggiate e bufere di neve, la famiglia McCarthy, sulle pagine del mio Kindle, si stabilisce nella stessa area, nella base della Royal Canadian Air Force di Centralia. I viali come sospesi nel tempo, i cavi dell’alta tensione, le villette dai colori vivaci, i corvi appollaiati sui fili sembrano uscire dalla pagina e proiettarsi fuori dal finestrino sporco del mio pullman, fermo in un villaggio semi-deserto che odora di erba tagliata e polvere, come nel riflesso di una realtà parallela.

Ontario and prairies.png
Foto scattate tutte nella stessa giornata (lo giuro!!)

Non serve passare 70 ore su un pullman attraverso il Canada centrale per venir risucchiati nelle atmosfere raccontate da Ann-Marie MacDonald in questo romanzo. The way the crow flies –  Come vola il corvo in italiano, edito da Mondadori e tradotto da Giovanna Granato – è un romanzo denso, profondo, crudo, introspettivo e poetico allo stesso tempo. Il realismo delle descrizioni è tale che a volte si ha l’istinto di distogliere lo sguardo dalla pagina, come se si stesse assistendo di nascosto a una scena a cui non si è stati invitati. È un romanzo che si legge tutto d’un fiato, ma che forse andrebbe riletto più volte per cogliere gli infiniti spunti di riflessione che offre. I temi controversi non mancano: abuso, guerra fredda, discriminazione, omicidio, politica, omosessualità, pregiudizio, religione, rapporto genitori-figli.

“I wanted to evoke, somehow, in a sort of way, the idea that we’re not alone, that our human perspective isn’t everything. And that was really what the title was about. You know, the way the crow flies is… we say that’s the most direct route, but the way the crows fly is that… the crows fly and they really notice what’s on the ground. When we fly, especially when we get to spaces like the moon or where we’re sending missiles… to destroy other people or the Earth, we’re not looking down, you know, we’re just looking at the target! So that was also on my mind” (Da un’intervista a Ann-Marie MacDonald)

2017-04-09 14.58.13-1La storia non ve la racconto, perché credo sia giusto lasciare al libro la prerogativa di sorprendere, deludere, far commuovere o sognare. Vi basti sapere che è ambientato per larga parte negli anni Sessanta e al centro della vicenda c’è l’omicidio di una bambina che sconvolgerà gli equilibri dei McCarthy, una sorta di versione canadese della famiglia del Mulino Bianco.

Per me che ho un debole per le bambine ribelli, il valore aggiunto di questo romanzo è il punto di vista: è la protagonista novenne Madeleine, infatti, che ci accompagna attraverso la vicenda, con l’acume e la consapevolezza di chi alla sua età ha visto e provato cose che farebbero capitolare anche un adulto, ma anche con quel pizzico di candore e tenerezza che la fanno rimanere bambina. Madeleine ha la forza di chi pensa con la propria testa e non ha paura di andare controcorrente, unita a una sensibilità dolcissima che la porta a fingere ingenuità per non ferire i suoi genitori o a colpevolizzarsi per voler più bene al suo Bugs Bunny di peluche che a Dio.

DSC07920
“Immense fields, endless miles between towns, so much forest and scrub unspoken for, Crown lands, shaggy and free. Three days driving through geological eras, mile after mile and still Canada.” (The way the crow flies, p.19)

Prima di leggere questo libro non conoscevo Ann-Marie MacDonald, ma in tante cose ricorda la Madeleine della sua storia. È una donna all’apparenza severa, dotata di un umorismo pungente e sagace, che non ha problemi ad affrontare temi e realtà a volte scomode. Il suo Canada è un paese con le sue contraddizioni e i suoi cortocircuiti, pur nella sua bellezza, e lei riesce a sottolineare e far convivere entrambi gli aspetti in modo magistrale.

Mentre il pullman, all’alba del terzo giorno, si addentra finalmente tra le strade addormentate di Toronto, chiudo il Kindle con tanti pensieri… Abbiamo davvero il diritto di determinare il destino di una persona innocente perché “è il male minore”? Siamo davvero noi adulti a proteggere i bambini dagli orrori del mondo o sono loro a proteggere noi? Quanto sottovalutiamo la loro sensibilità e capacità di discernimento? Dire la verità paga sempre?

2017-04-12 20.06.16

[Okay, lo ammetto, ho anche pensato di andare a stalkerare l’autrice, che a Toronto ci vive, ma non sarebbe stata altrettanto poetica come conclusione].
Stalkeraggio a parte, se vi verrà voglia di leggere il libro, fatemi sapere cosa ne pensate nei commenti 🙂

Redenzione di una disordinata cronica: Project Management

Piani e calendari editoriali sono ottimi per tenere sotto controllo tutto ciò che riguarda il marketing (se non hai letto il post precedente, lo trovi qui), ma ogni tanto bisognerà pur lavorare! Oggi parliamo quindi di project management per traduttori, ossia come organizzare la gestione dei vari progetti di traduzione. L’anno scorso avevo un banale foglio Excel su Google Drive e, nonostante contenesse i dati di base per permettermi di monitorare i progetti, le fatture inviate e lo stato dei pagamenti, mancavano informazioni importanti sul progetto, sul fatturato, su eventuali istruzioni specifiche, sul tempo impiegato per completare un dato progetto. Fortunatamente ho una buona memoria, perciò mi ricordo facilmente scadenze e requisiti, ma il metodo nel complesso non era efficiente.

Nell’ambito dell’esperimento Organizzazione 101, a gennaio ho quindi testato due metodi alternativi: uno cartaceo e uno digitale.

POTERE DEI TEMPLATE PERSONALIZZATI SU CANVA, VIENI A ME!

Presa dal sacro fuoco della creazione su Canva, ho realizzato questo modello:

4
Volevo scriverci “It’s a beautiful day to save lives”, come diceva il buon Derek Shepherd, ma  non ci sarebbe entrato.

Ho diviso la pagina in sei riquadri con tutte le informazioni di solito necessarie per un progetto.

  1. Info generali: titolo (del documento/i, anche fittizio, giusto per ricordarsi di quale progetto si tratta), servizio, combinazione linguistica, numero di parole (che può essere sostituito con cartelle, ore, minuti di audio/video a seconda del caso), argomento, prezzo per unità e prezzo totale.
  2. Date: data di inizio e scadenza
  3.  Specifiche del file da consegnare: numero e formato dei file da consegnare, più info su TM , glossario, varie ed eventuali
  4. To do list: per avere un’idea di dove sono nel corso del progetto, soprattutto nel caso di progetti corposi o a lungo termine. Ho aggiunto la voce TEMPO, per monitorare la mia velocità per vari tipi di testi e rendermi conto con precisione della mia produttività (e alzare i prezzi, se necessario).
  5. Varie fasi del pagamento: se ho ricevuto il PO o il preventivo firmato, se e quando ho inviato la fattura, se e quando ho ricevuto il pagamento e l’importo effettivo in dollari canadesi (visto che da Paypal al conto bancario con la conversione si perde sempre qualcosa)
  6. Note. Varie ed eventuali

Considerazioni generali: Sono una patita della scrittura a mano e avere tutte le informazioni che mi servono disponibili a colpo d’occhio è utile. Non è un metodo ideale quando si hanno tanti progetti piccoli, perché ci si ritrova con cataste di fogli e compilare la scheda richiede quasi più tempo della traduzione in sé. A livello psicologico, invece, l’idea che “finché ci sono fogli sulla scrivania, c’è qualcuno che mi deve dei soldi” mi fa sentire più ricca. 😀 

 

PROTEMOS IL TITANO AMICO DEI TRADUTTORI

Protemos – da me ribattezzato Prometeo perché così me lo ricordo meglio – è un sistema di project management per traduttori freelance e agenzie di traduzione. Ha solo pochi mesi di vita, ma nel complesso mi sembra molto completo. Ecco alcune delle sue funzioni principali:

Account: puoi inserire le tue informazioni di base, caricare il tuo logo, impostare i promemoria da ricevere nell’inbox a seconda delle tue esigenze. In modalità freelance non è possibile aggiungere altri utenti, ma le agenzie possono aggiungere “vendors” a cui assegnare progetti.

general-info

System values: Informazioni ad hoc per i tuoi progetti di traduzione: combinazioni linguistiche, servizi offerti, metodi di pagamento e persino CAT logs. I CAT logs sono dei modelli personalizzabili a seconda del cliente, in cui inserire le tariffe offerte per matches e repetitions in vari CAT tools. Quelli supportati per il momento sono Trados 2007, Trados 2014/2015, MemoQ, Wordfast 3, Wordfast 4, Lionbridge Translation Workspace.

systems-values_ink_li

Clients: qui puoi inserire le informazioni sui tuoi clienti. In alto i dati della persona di riferimento e in basso della sua compagnia.

cliente

Quotes: La sezione preventivi consente di inserire le info di base di potenziale cliente e potenziale progetto, caricare i file, caricare il cat log ricavato dall’analisi eseguita nel proprio CAT tool e infine creare uno o più “receivables” con le tariffe da applicare. Si scarica quindi il PDF e, una volta inviato, è possibile cambiare lo status su “sent”. Se è il nostro giorno fortunato e il preventivo viene accettato, è presente anche la comoda opzione “convert to project”.

quote
Esempio di preventivo fittizio con tariffe fittizie (purtroppo Pinco Pallino non mi deve 400$)

Projects: Altrimenti si può creare un nuovo progetto inserendo manualmente le informazioni. Ogni progetto le seguenti schede: files, finances, cat logs. Io di solito non carico file, ma immagino l’opzione sia utile ad agenzie e outsourcer, che possono condividere i file con il proprio traduttore direttamente sulla piattaforma. In finances si possono creare receivables che verranno poi convertiti in invoices. Ogni receivable supporta un solo servizio, perciò se si ha, ad esempio, un progetto di traduzione e sottotitolaggio, bisognerà creare due receivables che poi verranno incorporati nello stesso invoice. Ogni receivable può essere creato a partire da una flat rate, rate per unit o da un cat log caricato in precedenza. Una caratteristica che a me piace molto è la conversione automatica di valuta fatta dal sistema nel caso in cui il pagamento sia in una valuta diversa dalla propria.

projecttabprojfinance

 

Finances: Presenta 3 schede: receivables, invoices e payments. Il primo è un elenco di tutti i receivables creati, che possono essere raggruppati in invoices e, come i preventivi, mandati al cliente in formato PDF. Il secondo è un elenco di tutti gli invoices creati e il terzo è l’elenco di tutti i pagamenti ricevuti. Il tutto può essere esportato anche in Excel.

invoiceex

Reports: Sezione che non ho ancora esplorato a fondo per mancanza di dati, analizza le informazioni inserite nel corso del mese e crea una serie di grafici su importo fatturato mensile, importo fatturabile, pagamenti ricevuti, importo fatturato diviso per cliente, per periodo di tempo, etc.

Considerazioni generali: 1. è un sistema estremamente intuitivo, ti basta giocarci per un giorno o due per imparare a usarlo senza alcun problema (se ce l’ho fatta io, ce la possono fare davvero tutti). 2. la versione freelance è GRATIS e gli sviluppatori hanno garantito che tutte le funzioni disponibili al momento rimarranno sempre e comunque gratuite. Eventuali funzioni aggiuntive potrebbero essere messe a disposizione a pagamento in futuro, ma quello che il sistema già offre mi sembra più che sufficiente per tutti i progetti di traduzione standard.  La versione per le agenzie è a pagamento e il prezzo dipende da quanti account si vogliono collegare (a meno che non si vogliano investire 3600 USD per l’uso illimitato).

AND THE WINNER IS…

Nonostante il cartaceo vinca la battaglia del mio cuore, devo ammettere che Prometeo è più completo, più eco-friendly e più facile da gestire soprattutto quando si lavora on-the-go in giro per la città, per il paese e per il mondo (come spesso mi capita).

È il tuo turno! Tu come tieni organizzati i tuoi progetti? Hai suggerimenti o programmi utili? Condividi la tua esperienza nei commenti! 🙂

Call it Magic: bilanci, obiettivi e nuove avventure

L’altroieri sera si sono chiuse le porte del 2016 , qui a Vancouver sotto l’ennesima coltre di neve della stagione, e stamattina, nella nuova casa, di fronte al caminetto finto che non funziona, avvolta nel piumone in compagnia di una tazza di cioccolata calda, è tempo di bilanci. Se dovessi dare una forma al mio 2016 sarebbe sicuramente un turbine: di esperienze, di emozioni, di colori, di luoghi, di parole, di obiettivi raggiunti e non raggiunti, di desideri, di progetti, di errori. È stato un anno stressante, ma altrettanto gratificante, in cui sento di aver gettato le basi di qualcosa ancora più grande di me, ma in cui credo molto.

Pochi giorni fa Words in Wonderland spegneva la sua prima candelina, a un anno di distanza da quel post sui buoni propositi del 2016. È tempo di rispolverarlo, per vedere cos’ho davvero combinato in questi 366 giorni.

Propositi 2016 in Review:

1/ Creare il mio brand: check! Quello che ha portato a Ikigai Translations è stato un percorso lungo e travagliato, fonte di ansia e dubbi amletici, ma di cui ora posso dire di essere orgogliosa. È ancora da migliorare sotto vari punti di vista, ma chi inizia è a metà dell’opera, no? Se sei anche tu agli inizi e ti interessa il mio esperimento di branding fai-da-te, in cui parlo di ispirazione, procrastinazione, logo, sito internet, puoi dare un’occhiata qui.

2/ Continuare a specializzarmi: check! Se fosse per me, la formazione non sarebbe mai abbastanza, la lista di corsi interessanti che mi piacerebbe seguire non fa altro che allungarsi. Quest’anno mi sono focalizzata soprattutto sulla traduzione editoriale, sull’ambito dei sottotitoli e sull’aspetto business, ma ho già un programma ricco per il 2017.

3/ Networking: check! Sgusciare fuori dalla mio mantello dell’invisibilità è stata una delle sfide maggiori dell’anno, ma è stato anche il passo che mi ha regalato le soddisfazioni più grandi. Sono stata alla Translation and Localization Conference di Varsavia, al workshop sulla traduzione della letteratura fantasy e a Italiano Corretto a Pisa, alla fiera del libro di Bologna e ho avuto la fortuna di conoscere persone straordinarie, che rappresentano per me una continua e inesauribile fonte d’ispirazione. È stato un po’ come tornare alla scuola elementare, quando il primo giorno venivo presentata alla classe come “la bambina nuova” e stavo lì impalata, sorridente e in imbarazzo, per poi trovare tra quei banchi delle persone che sarebbero diventate fondamentali “amiche per la vita”.

networking
A sinistra con Gala, Marta e Valeria; a destra con Irene e Alice

 

4/ Portare avanti il blog con regolarità e rafforzare la presenza online: check! Diciamo che la regolarità sul blog un pochino mi è mancata nei mesi centrali dell’anno, ma ho recuperato postando più di frequente verso la fine. Ho ricevuto tantissimo supporto e commenti positivi che non mi aspettavo e spero questo piccolo spazio di sproloqui continui a crescere.

5/ Continuare a perfezionare le mie capacità linguistiche e aggiungere lingue nuove: nì. Ho cercato di tornare a parlare e leggere in giapponese con più regolarità rispetto al 2015, ma ho dovuto accantonare a malincuore il finlandese per mancanza fisica di tempo, almeno per il momento.

6/ Leggere di più in italiano: failed! Principalmente perché la biblioteca non è molto fornita, ma conto di rimediare quest’anno grazie al potere del Kindle.

7/ Gestire il tempo in modo più efficiente: si può migliorare. Non sono ancora lontanamente vicina al livello di produttività che vorrei raggiungere, ma sto cercando di procedere per gradi.

8/ Credere di più in me stessa. Meh. Purtroppo la sindrome dell’impostora e del “non sono capace, dovevo andare a fare la venditrice di ghiaccioli ai pinguini nel Sahara” è sempre dietro l’angolo, ma ci sto lavorando.

Il 2016 mi ha portato anche La bottega dei traduttori, molti progetti interessanti, sprazzi di creatività che non pensavo di avere, dei bellissimi viaggi – alle Hawaii, in Polonia e nel mio amato Giappone – ma anche la scoperta di gemme di Vancouver che non conoscevo, la consapevolezza che se una giornata ha 24 ore non posso riempirmi di cose da fare come se ne avesse 48, e la convinzione che vivere con la meraviglia negli occhi rende il mondo più bello.

pano_20160220_111226
Hawaii

In vista dell’anno nuovo, ho fatto poi l’esperimento della “parola dell’anno” e ne è risultato che il mio 2017 sarà all’insegna della magia e dell’avventura!

Quest’anno lavorerò quindi per:

  • Organizzare meglio il mio business a livello pratico (finanze in ordine, planning fatti per bene, fatture sempre sotto controllo)
  • Rendere più visibile il mio sito internet (più SEO e Google Analytics)
  • Iniziare a muovermi verso un target più specifico di clienti
  • Veder pubblicato il libro per La bottega dei traduttori su cui sto lavorando da mesi, ma che ancora è lontano anni luce dall’essere vagamente accettabile
  • Incontrare e reincontrare di persona colleghe e mentori che ho conosciuto online nel 2016
  • Dedicare un pochino di tempo a me stessa e alla mia famiglia (vicina e lontana) senza sentirmi in colpa o avere l’ansia di non riuscire a fare tutto quello che devo fare
  • Iniziare a lavorare a un progetto top-secret su cui mi sto arrovellando da un po’, ma che richiede disciplina, risorse e coraggio.

Infine, farò del mio meglio per non farmi risucchiare dall’abitudine e cercare di vivere ogni giorno seguendo le mie parole dell’anno: magia e avventura!

13900394_225293557866614_572115981_n
[Quarry Rock – Vancouver. Questa è mia sorella, la mia foto era troppo brutta per essere condivisa pubblicamente]

4 parole giapponesi per 4 buoni propositi di fine anno

Con l’approssimarsi della fine dell’anno, è tempo di chiudere la parentesi sulla lingua giapponese (almeno provvisoriamente). Lo so, avevo promesso cinque tra le mie parole preferite, ma, visto che è tempo di bilanci e nuovi obiettivi, ho colto l’occasione per trasformare il post in 4 parole per 4 buoni propositi.

Uno degli aspetti più affascinanti della lingua giapponese è proprio la sua capacità di racchiudere in due o tre caratteri una miriade di concetti astratti che parlano direttamente alla nostra sfera emotiva, quasi bypassando il linguaggio. Le parole di oggi hanno in comune proprio questa caratteristica (a mio modesto parere). Cominciamo.

  1. Dai una possibilità alle cose nuove, nel mistero si può nascondere qualcosa di meraviglioso.

不思議 [fushigi]. Fushigi è sempre stata per me una parola marcatamente evocativa. Può essere usata come nome, come aggettivo (seguito dal suffisso -na) o come avverbio (con il suffisso -ni) e significa misterioso, strano, inspiegabile, enigmatico, curioso, insolito, ma anche straordinario, meraviglioso, miracoloso. Un fushigi-na hito è quindi una persona misteriosa, enigmatica; mentre un fushigi-na gensho è un fenomeno strano, inspiegabile; sekai no nana fushigi sono le sette meraviglie del mondo e fushigi no kuni no Arisu è Alice nel paese delle meraviglie. Il fatto che il concetto di mistero, di qualcosa fuori dagli schemi  e di meraviglia siano espressi con la stessa parola è, secondo la mia percezione, un incentivo a coltivare la curiosità, perché, in fondo, per trasformare un mistero in un paese delle meraviglie basta il coraggio di scendere nella tana del bianconiglio.

  1. Fai del tuo meglio. Non darti per vinta, qualsiasi siano le circostanze.

頑張る [ganbaru] È un verbo che significa fare del proprio meglio, tenere duro, insistere ed è usatissimo nelle forme “Ganbare!/Ganbatte!” (Forza! Tieni duro!), “Ganbarou/Ganbarimashou” (facciamo del nostro meglio!), “Ganbaru/Ganbarimasu (farò del mio meglio). Dietro il semplice ganbaru si nasconde tuttavia qualcosa di molto più profondo: è un mantra, un valore portante della società, uno stile di vita. In 3 sillabe sono racchiuse la resilienza, l’efficienza, lo spirito di collaborazione e di sacrificio che permettono ancora oggi al Giappone di rialzarsi dopo terremoti, di ricostruire strade in tempi record, ma che lo rendono anche il paese con uno dei tassi di mortalità più alti a causa dello sfinimento da troppo lavoro o con pochissimi giorni di ferie pagate. Un concetto controverso, insomma, ma che parte da buone intenzioni. Ganbatte a tutti, quindi, ma con moderazione.

  1. Non perdere fiducia negli esseri umani.

性善説 [seizensetsu] Lo so, dopo tutti gli avvenimenti del 2016 è difficile credere che ci sia del buono intrinseco nella natura umana. Eppure seizensetsu significa proprio questo, è la convinzione secondo cui la natura umana di base è essenzialmente buona, il famoso “c’è del buono in ognuno di noi”. Qualcuno sostiene che questa sia la causa alla base della smisurata buona fede dei giapponesi, che lasciano tranquillamente in giro borse con telefoni e portafogli dentro, ma potrebbe trattarsi più semplicemente del fatto che la gente è più onesta che in Occidente. [Parentesi di vita vera: Una volta sono riuscita a dimenticare la mia borsa con dentro tutto l’indispensabile per sopravvivere legalmente, tipo passaporto e portafoglio, appoggiata al muro in una stradina di Kyoto piena di gente nel bel mezzo di un festival tradizionale. Quando me ne sono accorta 10 minuti dopo e sono corsa a cercarla in preda al panico, era ancora lì indisturbata. Proprio come in Italia.]

  1. Trova dentro di te la ragione per cui ti svegli la mattina e vivi la vita appieno per onorarla. Quando ti senti persa, ricordati cosa motiva le tue azioni e persegui i tuoi obiettivi con passione.

生き甲斐 [Ikigai] Sul concetto di ikigai c’è un famoso Ted Talk e tanti post sul grande world wide web. Significa “la ragione che ti motiva ad alzarti al mattino”, è la tua vocazione e la tua missione, è ciò che rende la tua vita degna di essere vissuta, a livello personale, lavorativo, familiare, spirituale, ecc. È un concetto semplice e profondo allo stesso tempo, con un tocco di poesia. Non a caso la scelta del mio brand name è ricaduta su Ikigai Translations: non tutti hanno la fortuna di poter fare della propria passione un lavoro e questo nome vuole essere una dichiarazione di intenti e un promemoria che mi ricorda quanto sono fortunata (tranne quando devo stare sveglia di notte per rispettare le consegne delle 6 di mattina).

fb-cover

4 parole per 4 buoni propositi, per un 2017 all’insegna della curiosità, dell’impegno, della fiducia nell’umanità e della scoperta della tua ragione d’essere. Grazie per avermi seguito fin qui, spero che questi post a tema nipponico ti siano piaciuti! Se hai qualche altra curiosità o consiglio, commenta qui sotto, mi raccomando!

Ti auguro delle feste sfavillanti, ci risentiamo i primi di gennaio per festeggiare un anno di Words in Wonderland 🙂

buone-feste
Tantissimi auguri di buone feste dalla sottoscritta, da Barney, dal pandoro tarocco e dalla bottiglia di Baileys (vera, grazie al cielo, e in pole position per le prossime cioccolate calde)

5 parole giapponesi curiose e affascinanti

Chiusa la parentesi sugli argomenti mattone, torniamo a parlare di lingua giapponese in toni più leggeri e casual, trattando parole curiose di difficile traduzione o dall’etimologia stravagante. Ho selezionato per te 5 parole + 1 espressione idiomatica, da tenere nel cassetto della memoria dove riponi aneddoti o pillole di conoscenza enciclopedica da sfoggiare con aria di superiorità alla Puffo Quattrocchi davanti a parenti e amici, allo scopo di sviare la conversazione da un argomento spinoso/riempire un silenzio imbarazzato/confondere il nemico. Prendi appunti! 😉

猫舌 [Nekojita]. È una delle mie parole preferite. Significa letteralmente lingua di gatto [neko = gatto + shita = lingua], ma non ha nulla a che fare né con i biscotti né con la lingua fisica del gatto. Si usa, infatti, per indicare una persona che non riesce a bere bevande o mangiare cibi troppo caldi, ad esempio il tè o la minestra o il ramen bollente.

tabby-cat-close-up-portrait-69932

親子丼 [Oyakodon]. L’oyakodon è un piatto tipico della cucina giapponese, che consiste in una ciotola di riso a cui vengono aggiunti pollo, uova sbattute e altri ingredienti come la cipolla verde fatti bollire in brodo dashi e mix di salsa di soia e mirin. È finito in questa lista per via del suo nome velatamente macabro, oyakodon è composto infatti dalle parole oya (genitore, nel nostro caso il pollo) + ko (figlio, qui le uova) + don (piatto a base di riso), in riferimento ai suoi ingredienti principali. Se ti va di metterti ai fornelli e provare l’esperienza mistica di mangiare una ciotola di riso contenente mamma gallina e la sua prole finita in padella prima di vedere la luce del giorno, qui trovi una ricetta.

魔法瓶 [Mahoubin]. Mahoubin letteralmente significa bottiglia magica/stregata, da maho = magia, stregoneria, incantesimo + bin = bottiglia. Che strumento magico sarà mai questa famigerata bottiglia, ti chiederai? Ebbene, si tratta nientepopodimeno che… di un comunissimo thermos, per via della sua abilità magica di tenere caldo/fresco il suo contenuto. Siamo tutti un po’ maghi e streghe insomma!

肉食系vs.草食系 [Nikushokukei vs. soushokukei]. Sono due termini che quand’ero una studentella ingenua mi colpirono molto. La spiegazione che trovi sotto è puramente linguistica e piuttosto semplicistica, non vuole infatti entrare nel merito di tutto il bagaglio sociale e storico-culturale che vi si cela dietro. Nikushokukei significa “carnivoro”, in contrapposizione a soushokukei “erbivoro”. La dieta degli animali però c’entra poco, i due termini vengono utilizzati infatti come attributi di uomini e donne.

  • Uomo carnivoro: è l’uomo “maschio”, alla Gaston della Bella e la Bestia, che tenta di circuire le donne con tutti i mezzi a sua disposizione, intraprendente, spavaldo, l’uomo tutto muscoli che ingolla uova crude come se non ci fosse un domani.
  • Donna carnivora: è la donna “predatrice”, che prende l’iniziativa nelle relazioni con gli uomini, indipendente e  quindi pericolosa.
  • Uomo erbivoro: è l’uomo timido, nerd, un pochino sfigatello che preferisce i videogiochi alle ragazze o che ha paura di farsi avanti, è l’uomo gentile, che valorizza la donna e la famiglia.
  • L’abbinamento Donna + erbivora non esiste, per il semplice fatto che per sua natura la donna dovrebbe già essere erbivora, ossia remissiva, condiscendente, dipendente emotivamente ed economicamente dall’uomo, votata alla famiglia.

gastonl

Dulcis in fondo, andiamo a chiudere il cerchio con un’altra espressione che scomoda i gatti e sembra fatta apposta per i traduttori (gattari per eccellenza, siano essi in carne e ossa o software digitali).
猫の手にも借りたい [Neko no te ni mo karitai], significa letteralmente “vorrei prendere in prestito persino le zampe del gatto” e indica la condizione di panico mista a isteria di quando si è sommersi di lavoro e di cose da fare tanto da non saper più dove sbattere la testa. Suona familiare? 😀

La prossima settimana concludiamo la serie con 5 tra le mie parole giapponesi preferite di tutti i tempi. Ti ringrazio per aver trovato il tempo di leggere questo post, ora torna pure a prendere in prestito le zampe del gatto per non mancare la prossima consegna 😉

giphycat

 

Gioie e dolori del tradurre dal giapponese #2

Eccoci al secondo appuntamento con le gioie e i dolori del tradurre dal giapponese (giuro che è l’ultimo in cui parlo di grammatica!).

Gioia/dolore n.3: il TU e i suffissi onorifici

Gli “appellativi”, apparentemente innocui, possono nascondere svariate insidie: indicano, infatti, relazioni tra interlocutori che possono essere basate su differenza di età, sesso, posizione sociale o fattori psicologici quali cortesia o intimità. [E non parliamo solo di giovane che deve dare del Lei all’anziano, ma anche di quattordicenne che deve utilizzare un certo grado di formalità con il compagno di scuola sedicenne] È fondamentale, quindi, al momento della traduzione, una conoscenza culturale della gerarchia dei rapporti del testo di partenza.
Facciamo un esempio. In giapponese, i termini che indicano la seconda persona singolare soggetto sono almeno cinque (anata, anta, kimi, kisama, omae) e assumono connotazioni diverse a seconda del contesto e del rapporto tra gli interlocutori. In italiano, in cui siamo limitati alla sola forma generica “tu”, non possiamo far altro che ricorrere a perifrasi oppure rinunciare a parte di quella sfumatura.

Nella frase seguente, un ragazzino di scuola media sta tentando di chiedere a una coetanea di uscire con lui, con quel tono un po’ strafottente dell’adolescente che in realtà se la sta facendo sotto, ma vuole che lei si senta onorata di aver ricevuto il gran dono della sua compagnia.

Es. JP 今日さ、お前ひま?っていきなり聞いてきた。
[Kyousa, omae hima? Tte ikinari kiitekita.]
IT Oggi te sei libera? Mi ha chiesto, così dal nulla.

Omae”, termine usato di solito in tono dispregiativo o comunque assai poco formale, è stato reso qui con “te”, per rendere il tono colloquiale del discorso.

Bisogna notare peraltro che l’uso per pronome “tu” in giapponese non equivale sempre al “tu” italiano, ma indica uno stretto grado di intimità o una vena dispregiativa o aggressiva più o meno marcata. Per esempio, userei “anata” per chiedere qualcosa a mia sorella, ma con i miei amici prediligerei una forma “nome proprio + suffisso onorifico (a seconda del grado di amicizia)”.

Altra caratteristica tipicamente giapponese è l’uso dei suffissi onorifici, la cui assenza in italiano li rende di difficile traduzione. Come sicuramente saprà chi ha avuto l’occasione di vedere film o cartoni animati giapponesi in lingua originale, i giapponesi attaccano alla fine di ogni nome proprio una particella che identifica subito il rapporto gerarchico tra gli interlocutori. Troviamo quindi il suffisso –chan, affettuoso o informale, di solito per nomi femminili e il corrispettivo –kun per i nomi maschili; -san per un maggior grado di distanza, -sama per porre l’interlocutore in una posizione più alta rispetto alla nostra; –rin, –tan come suffissi diminutivi, ecc… Perciò, io sono Fede-chan per i miei amici, Federica-san per una persona che ho appena conosciuto o con cui non sono troppo in confidenza e Federica-sama nelle email di Amazon (che mi pone in una posizione superiore in quanto cliente).
Nella traduzione italiana, la scelta può essere ambivalente: lasciare tutti i suffissi come nell’originale oppure ometterli e chiarire in altro modo la gerarchia tra i parlanti.

onorifici

Gioia/dolore n.4: Nomi propri

I nomi propri di norma vengono considerati delle semplici etichette a puro scopo denotativo, tuttavia possono essere portatori di identità razziale, etnica, nazionale e religiosa e avere carattere connotativo all’interno del testo (Harry Potter docet). Nel caso specifico dei nomi giapponesi, l’utilizzo dei kanji per i nomi propri di persona dà loro una valenza semantica che nella traduzione risulta quasi impossibile mantenere. Se non sono connotati, lasciarli in originale è sicuramente la scelta migliore (e indolore), se lo sono bisognerà spremersi le meningi.

Come esempio, voglio proporre l’incipit di un racconto che ho tradotto, intitolato proprio Il nome.
“Come compito a casa dovevo scrivere un tema intitolato «L’origine del tuo nome». Avevo circa 10-11 anni, se non ricordo male. Tornata a casa, chiesi a mia madre l’origine del mio nome. Alla sua risposta assai brusca: Haruko perché sei nata in primavera, il mio nome, che già prima non mi piaceva un granché, iniziò a divenirmi odioso.”

Il nome Haruko è un composto di Haru 春 (primavera) + Ko (bambino, figlio) e letteralmente significa quindi “figlia della primavera”. In questo caso quindi è un nome fortemente connotato, in quanto la sua “banalità” costituirà il leirmotiv dell’intero racconto. [Che puoi leggere per intero qui, se la vicenda ti incuriosisce].
Dopo lunghe elucubrazioni, ho optato per una breve nota a piè di pagina, in quanto una spiegazione all’interno del testo mi sembrava lo appesantisse eccessivamente (soprattutto considerato il ritmo del testo a frasi brevi e secche), per non parlare della sua sostituzione con un nome italiano che avrebbe snaturato il testo su molteplici livelli.

Tu come avresti risolto? 🙂

Gioie e dolori del tradurre dal giapponese #1

Dopo il post poetico della scorsa settimana (che puoi recuperare qui, nel caso te lo fossi perso), inauguro oggi una mini-serie sugli aspetti un po’ più tecnici della traduzione dal giapponese, sperando di riuscire a tenere vivo l’interesse e a non far morire di noia nessuno.
Nel processo di traduzione da qualsiasi lingua, è inevitabile imbattersi in una serie di problemi, che possono essere strettamente linguistici, terminologici, culturali, stilistici, ecc… Se dovessi analizzarli tutti ne verrebbe fuori un trattato di dimensioni bibliche, perciò mi limiterò a quegli aspetti un po’ più distanti dall’italiano.

Gioia/dolore n.1: Onomatopee ed espressioni mimetiche

Le onomatopee sono l’incubo di ogni traduttore nipponista (ma in fondo anche una grande soddisfazione, quando si trova la resa che calza a pennello). Che sia un verbo, un avverbio, un aggettivo, non ha importanza: il giapponese, appena trova uno spiraglio, ci infila un’onomatopea [e non esagero, nelle 200 pagine di un libro che ho analizzato ne ho contate quasi 400].
Per essere davvero precisi, bisogna dividere queste espressioni in due categorie: onomatopee nel vero senso della parola (chiamate giongo), ossia parole che imitano suoni reali, ed espressioni mimetiche (gitaigo), ossia parole che descrivono foneticamente situazioni che non producono suoni, come emozioni, movimenti o stato delle cose.

Qualche esempio? Batabata indica qualcosa di frenetico, gangan è il bere a grandi sorsi, patapata è il rumore delle ciabatte quando si cammina trascinando leggermente i piedi, yoroyoro è il camminare malfermi sulle gambe, noronoro è invece la camminata lenta a passo di lumaca, shakishaki è il rumore delle forbici, boribori è lo sgranocchiare… e potrei continuare all’infinito.

Se, in traduzione, dovessimo andare ogni volta alla ricerca di un’onomatopea corrispondente,
1. saremmo da ricoverare con un esaurimento nervoso dopo una settimana
2. falliremmo miseramente in ogni caso, visto che l’italiano nell’80% dei casi non presenta un equivalente
3. il nostro libro/articolo/testo suonerebbe molto simile a un fumetto.

Fortunatamente l’italiano è una lingua piuttosto ricca a livello lessicale e ci permette di ovviare a questa forte impronta fonetica con avverbi, aggettivi, verbi, parafrasi ed espressioni idiomatiche; a volte, tuttavia, qualora andassero ad appesantire eccessivamente il testo, ometterne qualcuna non è un crimine.

onomatopoea

Dolore n.2  Espressioni fatiche (Aizuchi)

Le cosiddette espressioni fatiche sono utilizzate nel discorso per mantenere un rapporto amichevole con l’interlocutore durante una conversazione e mostrare interesse nei confronti di ciò che sta dicendo.  Sono considerate espressioni fatiche ad esempio i saluti o le frasi fatte che si utilizzano all’inizio di una conversazione, le espressioni di adulazione o le espressioni diplomatiche per mantenere una buona atmosfera nell’interazione con l’altro.
[Tanto per fare chiarezza, quando una persona giapponese ti parla, si aspetta che tu, ogni frase o due, esprima il tuo interesse con dei suoni tipo mmm, ahah, eeeehhhh, ooooh, ahhhh e compagnia bella. Se ti limiti ad ascoltate educatamente in silenzio, l’altro penserà che stai solo facendo finta e che in realtà non te ne importa un fico secco del suo discorso.]

Qualche esempio pratico: そうだ!(da) è un intercalare d’uso frequente, sia in una conversazione per esprimere interesse nei confronti di ciò che l’interlocutore sta dicendo, sia come rafforzativo quando si parla tra sé e sé. In italiano potrebbe essere qualcosa come “ah, giusto giusto/sì sì/ecco, per l’appunto/precisamente“.
Oppure il frequentissimoよろしくお願いします (yoroshiku onegaishimasu), che letteralmente esprime una preghiera, speranza, richiesta cortese, ma di fatto può voler dire un po’ di tutto a seconda del contesto. È una formula di saluto quando ci si presenta a qualcuno per la prima volta, ma è molto comune ad esempio anche nell’accezione con cui la usa con me la mamma del mio ragazzo (del tipo, “fortuna te, ti affido mio figlio, tienimelo un po’ d’occhio ‘sto poretto, che da solo mica è capace), che da brava genitrice giapponese sminuisce le capacità dei propri pargoli di fronte a terzi.
La traduzione degli aizuchi è sempre un dilemma, almeno per quanto mi riguarda, ma penso sia buona pratica sfoltirli, perché in italiano tendono a spezzare molto il ritmo della conversazione.

Concludo con un simpatico quiz tratto da questo articolo per chi volesse cimentarsi [Non vale fare ricerche su internet!]

  1. nurunuru – asciutto o melmoso?
  2. pikapika – luminoso o scuro?
  3. wakuwaku – entusiasta o annoiato?
  4. iraira – felice o arrabbiato?
  5. guzuguzu – movimento rapido o movimento lento?
  6. kurukuru – movimento rotatorio o movimento su e giù?
  7. kosokoso – camminata silenziosa o rumorosa?
  8. gochagocha – ordinato o disordinato?
  9. garagara – affollato o vuoto?
  10. tsurutsuru – liscio o ruvido?

Le soluzioni sono nei commenti… Quante ne hai indovinate? 🙂

La lingua giapponese: tra poesia e ambiguità

Del perché ho scelto di avvicinarmi al giapponese

Il 90% delle persone, quando scopre che parlo e traduco dal giapponese, mi chiede “perché hai scelto proprio il giapponese?” No, i cartoni animati non c’entrano. Chiamatemi masochista, ma per me tutto è iniziato dalla scrittura. Quei caratteri, fitti senza spazi sulla pagina, erano come un labirinto in cui il mio sguardo continuava a perdersi, tra un tratto rigido e austero e uno curvo e armonioso, quelle forme raccontavano una storia a me incomprensibile e per questo straordinariamente affascinante. Nella mia mente erano storie bellissime dalle possibilità infinite, parlavano di paesaggi lontanissimi, di persone estranee, di una cultura misteriosa ed enigmatica tutta da scoprire. Evocavano immagini di templi, ciliegi, foreste di bambù, samurai e geishe… Da lì, è stato un salto nel buio. Una scommessa coraggiosa? Una sfida con me stessa? Una fortunata intuizione? Con l’incoscienza che mi contraddistingue davanti alle decisioni importanti, ho scelto col cuore e non me ne sono mai pentita.

Della bellezza del giapponese

Come in tutte le lingue, lingua e cultura giapponese sono strettamente correlate, l’una non può esistere senza l’altra; le parole sono un mezzo che cerca di riflettere al meglio la complessità e la ricchezza della mentalità di chi le utilizza.

Se dovessi scegliere un aggettivo per descrivere la lingua giapponese, sarebbe 曖昧な (aimaina).

Aimaina è una delle parole più utilizzate per descrivere il Giappone e significa ambiguo, vago, dai contorni sfumati, non netto, che lascia spazio all’interpretazione. Lo stess Ōe Kenzaburō, premio Nobel per la letteratura nel 1994, utilizzò questo aggettivo per descrivere il proprio paese durante il suo discorso di accettazione del premio.

Il Giappone è un paese dalla cultura affascinante e dalle mille sfaccettature, da una parte radicato nelle sue tradizioni millenarie, dall’altra sempre in movimento verso il futuro, con mode e tecnologie in rapida evoluzione che sfidano i limiti del possibile.

Modernità e tradizione - Foto by me
Modernità e tradizione – Foto by me

L’ambiguità e la contraddizione si riflettono inevitabilmente anche nella lingua o meglio, nel modo in cui la lingua viene usata.
In giapponese, esistono espressioni per esprimere un rifiuto diretto, ma le persone raramente utilizzano la parola “no” per declinare un invito o esprimere un’opinione diversa dalla tua, preferiranno usare una perifrasi o una risposta vaga come “forse, magari, ora ci penso, vediamo, un attimo…”. Altro esempio, un’espressione come 大丈夫です/いいです (daijoubu desu/ii desu), può avere un significato affermativo per confermare qualcosa, ma anche negativo per dire “no grazie, sono a posto”.
In giapponese non esistono maschile e femminile, né singolare e plurale come forme grammaticali indipendenti: tutto dipende dal contesto, dalla situazione, dal tono, dall’interlocutore.
Il non-detto, il dover leggere tra le righe è una caratteristica peculiare della lingua nipponica e la ragione prima del suo fascino (e di non pochi problemi per il povero straniero alle prime armi che si rapporta con essa).
L’aimai in realtà ha le sue radici nel concetto di armonia “” (wa), radicatosi in modo particolare nel corso del XVII secolo,  quando la pace all’interno di ciascuna comunità era di vitale importanza perché il gruppo lavorasse unito e producesse a sufficienza per sopravvivere e, quindi, le persone evitavano di esprimere le proprie opinioni in modo diretto, prediligendo sfumature vaghe per dissentire. Il concetto di negazione dell’individualità del singolo per il bene della comunità è ciò che giustifica ancora oggi l’estremo grado di innovazione e di efficienza del Giappone.
Anche se in misura minore nelle nuove generazioni, la dicotomia honnetatemae, ossia ciò che si pensa veramente e ciò che si mostra e si dice per rispettare il proprio ruolo sociale e le aspettative della comunità, è ancora una realtà costante della comunicazione dei giapponesi. Un esempio classico, che mi fa sempre sorridere, è la reazione sbalordita al limite dello shock “日本語がお上手ですね!!” (ma come parli bene giapponese!) che ricevo dal mio interlocutore di turno ogni volta che mi presento con un semplice “Mi chiamo Federica, piacere di conoscerla”, come se invece che dire il mio nome, avessi appena fatto un discorso sulla fisica quantistica avanzata.

In tutto questo, come viene influenzato il processo di traduzione dal giapponese al nostro bell’italiano schietto?
La prossima mini-serie di post sarà proprio dedicata a questo argomento, mica posso rivelare tutto in una volta! 🙂

Esperimento Branding DIY – Sito internet fai da te? Si può

Siamo arrivati all’ultimo appuntamento dell’esperimento branding diy, la parte probabilmente più impegnativa e che richiede più tempo: il sito internet. Farsi creare il sito da un web designer professionista, si sa, può essere dispendioso, con cifre che partono all’incirca dagli 800-1000 euro. Se hai la disponibilità economica di investire in un sito professionale già dall’inizio, ben venga; io ho un debole per Websites for Translators: tutti i siti da loro realizzati sono super-curati, sprizzano professionalità e freschezza, sono perfettamente in linea con il mio gusto personale. Il fatto che siano specializzati in siti per traduttori è un fattore da non trascurare, significa che capiscono meglio le esigenze del nostro mercato specifico. Facci un pensierino.

Se invece non sei esattamente Paperon de’ Paperoni, all’inizio anche un sito fai-da-te può funzionare. La rete pullula di tutorial, guide per dummies, forum di assistenza per i meno tecnologici: basta armarsi di tanta pazienza e altrettanta determinazione. In altre parole, se ce l’ho fatta io, ce la possono fare tutti. Ecco qualche consiglio (spero) utile basato sulla mia esperienza.

Dappertutto troverai scritto che è meglio evitare le piattaforme gratuite tipo wordpress.com e simili. Sono d’accordo. Piattaforme del genere vanno bene per i blog (tipo questo, nato esclusivamente per essere un blog, senza velleità di espansione a fini di lucro), ma non sono ideali per un sito che deve rappresentare il tuo brand.

Hosting e domain: Prima di tutto è necessario scegliere la piattaforma che ospiterà il tuo sito (web hosting) e come ti chiamerai (il tuo domain name). Non mi dilungherò a parlare di cose che non so, ma consiglio di leggere qualche blog di informatica e/o guardare tutorial su YouTube prima di scegliere. [Qui puoi trovare un articolo molto chiaro che spiega bene la differenza e dà qualche consiglio]  Molti sono sponsorizzati e offrono sconti per il primo anno di attività del sito. Io ho scelto SiteGround perché ha server sia qui in Nord America che in Europa e sembra avere un eccellente servizio di supporto.

È il momento di iniziare a lavorare al sito! Ho scelto di utilizzare WordPress, perché è molto intuitivo e mi ci ero già trovata bene con il blog. Una volta installato, mi sono trovata un bel tutorial su YouTube e ho seguito pedissequamente le istruzioni per la home page e un paio di altre pagine principali.

Consiglio importantissimo: Se decidi di usare WordPress e il tutorial non te lo dice (come è successo a me), assicurati di installare il child theme del tema che hai scelto, altrimenti tutte le modifiche che apporti andranno magicamente perse nell’etere ogni volta che è disponibile un aggiornamento. Il Child Theme in pratica funziona come una copia di un documento word, quando vuoi fare modifiche senza perdere l’originale. [NB. E non farti ingannare su internet dai tutorial che fanno sembrare l’installazione del Child Theme un’impresa impossibile. C’è un plugin chiamato Child Themify che rende il processo rapido e indolore]

Una volta capito come funzionano widget e plugin, come cambiare colori e font, come impostare immagini di sfondo, ho iniziato a scostarmi sempre di più dai tutorial e a personalizzare ogni pagina in base alle mie esigenze.

Quando ho iniziato a “giocare” con il mio sito, avevo già la mia copy pronta, la struttura del sito scritta a grandi linee su un foglio di carta e la mia palette (anche se poi qualche ritocco in corso d’opera è normale e lecito). Mi sono data un mese e mezzo per portare avanti il progetto nei ritagli di tempo, senza sacrificare il lavoro. Ho visto le pagine prendere forma lentamente, modificarsi in base all’ispirazione del momento, semplificarsi laddove l’idea era troppo ambiziosa. Ho evitato come la peste qualsiasi operazione troppo complessa che prevedesse l’uso avanzato di css, php, html – non parlo mr. robottese e tutti quei codici mi terrorizzano – ma il sito ne è uscito indenne, a testimonianza del fatto che anche dummies possono creare siti dignitosi.

Meglio un sito semplice online che un sito offline in attesa di essere perfetto. Se aspetti che il tuo sito sia perfetto, non vedrà mai la luce del giorno. Potrà sempre essere scritto meglio, essere più intuitivo, con grafica migliore, in sette lingue, con SEO così azzeccata da saltare al n.1 di Google in un attimo. Guess what? Sono tutte cose che puoi modificare in corso d’opera, intanto fai il primo vero passo, quello che spaventa tutti (tanto più gli introversi che hanno paura di confrontarsi con il mondo esterno come la sottoscritta), buttati, metti il sito online. Il mio – che ha visto la luce circa 20 minuti fa! – è ancora solo in inglese, con la SEO tutta da migliorare, una pagina blog intonsa e quella portfolio ancora in costruzione… la strada è ancora lunga, ma pare che chi ben comincia sia a metà dell’opera. 🙂

webimage

E con la presentazione ufficiale del sito di Ikigai Translations si chiude questo mese di esperimenti di personal branding fai da me. Spero ti sia stato utile e ti abbia motivato a iniziare il percorso nei meandri del branding.

Se hai consigli o feedback, se trovi errori o cose che non ti piacciono, scrivimi! L’ho chiamato esperimento per un motivo: nessuna verità assoluta, tante prove ed errori, ma anche tanto entusiasmo e voglia di renderlo sempre migliore 🙂

E se ti va, lascia pure un commento con il tuo sito internet, un pochino di visibilità in più non guasta mai 😉