La lingua giapponese: tra poesia e ambiguità

Del perché ho scelto di avvicinarmi al giapponese

Il 90% delle persone, quando scopre che parlo e traduco dal giapponese, mi chiede “perché hai scelto proprio il giapponese?” No, i cartoni animati non c’entrano. Chiamatemi masochista, ma per me tutto è iniziato dalla scrittura. Quei caratteri, fitti senza spazi sulla pagina, erano come un labirinto in cui il mio sguardo continuava a perdersi, tra un tratto rigido e austero e uno curvo e armonioso, quelle forme raccontavano una storia a me incomprensibile e per questo straordinariamente affascinante. Nella mia mente erano storie bellissime dalle possibilità infinite, parlavano di paesaggi lontanissimi, di persone estranee, di una cultura misteriosa ed enigmatica tutta da scoprire. Evocavano immagini di templi, ciliegi, foreste di bambù, samurai e geishe… Da lì, è stato un salto nel buio. Una scommessa coraggiosa? Una sfida con me stessa? Una fortunata intuizione? Con l’incoscienza che mi contraddistingue davanti alle decisioni importanti, ho scelto col cuore e non me ne sono mai pentita.

Della bellezza del giapponese

Come in tutte le lingue, lingua e cultura giapponese sono strettamente correlate, l’una non può esistere senza l’altra; le parole sono un mezzo che cerca di riflettere al meglio la complessità e la ricchezza della mentalità di chi le utilizza.

Se dovessi scegliere un aggettivo per descrivere la lingua giapponese, sarebbe 曖昧な (aimaina).

Aimaina è una delle parole più utilizzate per descrivere il Giappone e significa ambiguo, vago, dai contorni sfumati, non netto, che lascia spazio all’interpretazione. Lo stess Ōe Kenzaburō, premio Nobel per la letteratura nel 1994, utilizzò questo aggettivo per descrivere il proprio paese durante il suo discorso di accettazione del premio.

Il Giappone è un paese dalla cultura affascinante e dalle mille sfaccettature, da una parte radicato nelle sue tradizioni millenarie, dall’altra sempre in movimento verso il futuro, con mode e tecnologie in rapida evoluzione che sfidano i limiti del possibile.

Modernità e tradizione - Foto by me
Modernità e tradizione – Foto by me

L’ambiguità e la contraddizione si riflettono inevitabilmente anche nella lingua o meglio, nel modo in cui la lingua viene usata.
In giapponese, esistono espressioni per esprimere un rifiuto diretto, ma le persone raramente utilizzano la parola “no” per declinare un invito o esprimere un’opinione diversa dalla tua, preferiranno usare una perifrasi o una risposta vaga come “forse, magari, ora ci penso, vediamo, un attimo…”. Altro esempio, un’espressione come 大丈夫です/いいです (daijoubu desu/ii desu), può avere un significato affermativo per confermare qualcosa, ma anche negativo per dire “no grazie, sono a posto”.
In giapponese non esistono maschile e femminile, né singolare e plurale come forme grammaticali indipendenti: tutto dipende dal contesto, dalla situazione, dal tono, dall’interlocutore.
Il non-detto, il dover leggere tra le righe è una caratteristica peculiare della lingua nipponica e la ragione prima del suo fascino (e di non pochi problemi per il povero straniero alle prime armi che si rapporta con essa).
L’aimai in realtà ha le sue radici nel concetto di armonia “” (wa), radicatosi in modo particolare nel corso del XVII secolo,  quando la pace all’interno di ciascuna comunità era di vitale importanza perché il gruppo lavorasse unito e producesse a sufficienza per sopravvivere e, quindi, le persone evitavano di esprimere le proprie opinioni in modo diretto, prediligendo sfumature vaghe per dissentire. Il concetto di negazione dell’individualità del singolo per il bene della comunità è ciò che giustifica ancora oggi l’estremo grado di innovazione e di efficienza del Giappone.
Anche se in misura minore nelle nuove generazioni, la dicotomia honnetatemae, ossia ciò che si pensa veramente e ciò che si mostra e si dice per rispettare il proprio ruolo sociale e le aspettative della comunità, è ancora una realtà costante della comunicazione dei giapponesi. Un esempio classico, che mi fa sempre sorridere, è la reazione sbalordita al limite dello shock “日本語がお上手ですね!!” (ma come parli bene giapponese!) che ricevo dal mio interlocutore di turno ogni volta che mi presento con un semplice “Mi chiamo Federica, piacere di conoscerla”, come se invece che dire il mio nome, avessi appena fatto un discorso sulla fisica quantistica avanzata.

In tutto questo, come viene influenzato il processo di traduzione dal giapponese al nostro bell’italiano schietto?
La prossima mini-serie di post sarà proprio dedicata a questo argomento, mica posso rivelare tutto in una volta! 🙂